L'Autore
Il mittente di questa breve epistola si presenta
ai lettori come "Giuda, servo di Gesù
Cristo, fratello di Giacomo" (V. I).
La qualifica servo di Gesù Cristo può
indicare semplicemente che chi scrive è
un cristiano: qui però presenta uno che
ha un servizio speciale, un ministero nella
comunità dei fedeli.
Il termine servo non precisa, ma non esclude,
che il mittente sia un Apostolo. Anche S. Paolo,
quando per ragioni polemiche o dottrinali non
era costretto ad aggiungere al suo nome l'attributo
di apostolo, si accontentava di qualificarsi
servo di Gesù Cristo. Giacomo,
autore della I epistola cattolica, si presenta
semplicemente con il titolo di servo di Dio
e del Signore Gesù Cristo (Giac.
I, I; vedi commento). Eppure era fratello (cugino)
di Gesù, e, secondo i migliori indizi
storici, apparteneva al collegio dei Dodici.
Anche il nostro Giuda, imitando Giacomo, si
qualifica semplicemente servo di Gesù
Cristo, e, per conciliarsi la benevolenza
dei lettori che apprezzavano l'autorità
del primo vescovo di Gerusalemme, si dichiara
fratello di Giacomo.
Bastavano questi pochi cenni autobiografici
all'autore della nostra epistola per rivolgersi
autorevolmente a lettori che dovevano trovarsi
nell'orbita dell'apostolato di Giacomo. Giuda
non aveva bisogno di sottolineare altre qualifiche
che dovevano essere ben note ai destinatari.
Quali erano queste altre qualifiche? Dalla lettura
dei Vangeli e dagli Atti apostolici possiamo
concludere, con buona probabilità, che
anche il nostro Giuda, come Giacomo, era fratello
(cugino) di Gesù e appartenente al collegio
apostolico. Se osserviamo le liste degli apostoli
date da S. Luca (6, 16 e Atti I, 13) troviamo
un Giuda di Giacomo immediatamente prima
dell'altro Giuda, soprannominato Iscariota,
traditore.
Alcuni acattolici sostengono che questa formula
significhi "Giuda figlio di Giacomo".
Così si legge in alcune recensioni del
Diatessaron (arabo e olandese) e nella
versione sirosinaitica. Tale infatti è
il significato normale del nome proprio
in genitivo che specifica un altro nome proprio.
Tuttavia, è doveroso notare che l'espressione
può essere usata in un senso più
generico, per indicare semplicemente che la
persona di cui sì parla è parente
o appartiene alla famiglia di quella indicata
col genitivo. Questo caso si verifica specialmente
quando un membro di una famiglia in un determinato
ambiente è conosciuto più dello
stesso capo di famiglia. Gli altri membri vengono
detti "di lui", sottintendendo per
ciascuno la qualifica propria della parentela.
Tale era il caso del nostro Giacomo, vescovo
di Gerusalemme, che doveva essere conosciuto
nella Chiesa primitiva ben più del padre
suo Alfeo. Nel Vangelo di S. Marco (16, I) la
madre di Giacomo viene detta semplicemente Maria
di Giacomo. I lettori intendevano Maria
madre di Giacomo (cfr. Mc. 15, 40). Nel
nostro caso i lettori dell'epistola, che dovevano
conoscere Giacomo e il suo rapporto di parentela
con Giuda, dovevano intendere fratello
di Giacomo. Espressioni di questo genere debbono
essere interpretate alla luce dell'ambiente
storico in cui sono nate. La formula "Giuda
di Giacomo" doveva essere di uso corrente
a Gerusalemme, dove Luca attingeva le sue informazioni
per indicare il fratello del capo della Chiesa
locale e per distinguerlo dall'omonimo Giuda
traditore. Così si spiega anche come
mai nelle liste degli apostoli conservate da
S. Luca il nostro Giuda occupi il penultimo
posto, immediatamente prima dell'omonimo Iscariota.
Gli altri due evangelisti Matteo (10, 4) e Marco
(3, 19) nelle loro liste degli apostoli riservano
il nome di Giuda al traditore e chiamano Taddeo
lo stesso apostolo che da Luca è detto
Giuda di Giacomo e lo inseriscono subito
dopo Giacomo (figlio) di Alfeo. Invece di Taddeo
che aramaico significherebbe "magnanimo",
alcuni codici di Matteo (10, 3 D k con Origene)
scrivono Lebbeo che significherebbe "coraggioso"
dalla radice (leb = cuore), altri (E
F G K L siropeshitto, harclense) uniscono assieme
i due nomi e soprannomi (I).
La Tradizione, attestata da ORIGENE (Ad Rom.
5, I MG 14, 1016) e da TERTULLIANO (De cultu
fem. I, 3 ML I, 1308), identifica Giuda
fratello di Giacomo con l'apostolo Giuda
Taddeo. Siccome il termine fratello
nelle lingue semitiche si presta ad accezioni
assai larghe, resta viva la questione sulla
precisazione del grado di parentela dei due
apostoli fra loro e con Gesù. Interpretando
i dati di Egesippo si potrebbero distinguere
in due gruppi i quattro fratelli di Gesù
ricordati nei Vangeli. Da un lato Giuda e Simone
figli di Clopa, nipoti di S. Giuseppe, di stirpe
davidica, dall'altra, Giacomo e Giuseppe figli
di Alfeo, di stirpe sacerdotale. Simone, nipote
di Giuseppe, viene ricordato come successore
di Giacomo nella direzione della Chiesa di Gerusalemme.
Secondo una tradizione, due suoi nepoti, che
erano dei semplici coltivatori, furono chiamati
in giudizio al tempo della persecuzione di Domiziano
(EGESIPPO, citato da EUSEBIO, Hist. Eccl.
III 19-20 MG 20, 252-3). Nel Vangelo di S. Giovanni
è conservata una domanda rivolta dall'apostolo
Giuda "non quello Iscanota", a Gesù
durante i colloqui dell'ultima cena: "Signore,
come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?".
Gesù rispose: "Se uno mi ama, osserverà
la mia parola, e il Padre mio l'amerà,
e verremo a lui, e faremo dimora presso di lui"
(Giov. 14, 22 s.). Probabilmente anche S. Paolo
allude a S. Giuda quando, nella I ai Corinti
(9, 4), parla dei fratelli del Signore, che
si fanno accompagnare da una "donna sorella"
nelle loro peregrinazioni.
Sul resto della vita di S. Giuda non abbiamo
dati sicuri. Secondo NICEFORO CALLISTO l'apostolo
Giuda avrebbe "pescato con la rete evangelica
dapprima nella Giudea, nella Galilea e nella
Samaria, poi nelle città della Siria
e della Mesopotamia" e avrebbe terminato
la vita "con una morte pacifica e quieta
a Edessa nella città di Abgaro"
(Hist. Eccl. II, 40 MG 145, 864; cfr.
HIERON, in Matth. 10, 4, ML 26, 61).
EUSEBIO e gli scrittori siri, invece, distinguono
il nostro Giuda Taddeo dal Taddeo che si recò
dal re di Edessa, Abgaro (EUSEBIO, Hist.
Eccl. I, 13 MG 20, 124). I siri poi ritengono
che l'Apostolo abbia subito il martirio ad Arado,
presso Beyrut (ASSEMANI, Biblioth. Orient.
3, 2, p. 13).
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Genuinità
e Canonicità dell'Epistola di San Giuda
A) Argomenti esterni. Nell'introduzione
alla seconda di Pietro abbiamo indicato le ragioni
che ci inducono a ritenere che l'epistola di
Giuda abbia servito di fonte a quello scritto
attribuito al Principe degli Apostoli. Se si
ammette questa dipendenza della 2 di Pietro
dalla nostra epistola, ne resta indirettamente
provata l'alta antichità e l'autorità
apostolica.
Il Frammento Muratoriano che attesta
la fede di Roma allo scorcio del II secolo accerta
senza alcun dubbio questa breve epistola fra
gli scritti canonici "epistolae sane
Iudae... in (oppure inter)
catholicas habetur" (linea 68 ss.).
Nella Chiesa africana TERTULLIANO cita l'epistola
"dell'apostolo Giuda" supponendola
accettata da tutti come canonica e tenta di
dimostrare con essa l'autorità del libro
di Enoch (De cultu fem. I, 3 ML
I, 1308).
CLEMENTE ALESSANDRINO scrisse un commento alla
nostra lettera di cui possediamo ancora la versione
latina redatta da CASSIODORO (in Iudae Ep.
Adumbrationes, MG 9, 731) e la citi come
S. Scrittura. ORIGENE attesta che Giuda scrisse
un'epistola breve, ma piena di sapienza divina,
la elenca nel suo canone e la cita frequentemente
(in Matth. tom. 10, 17 MG 13, 877; in
Iosue hom. 7, I MG 12, 857 ecc.).
La fede della Chiesa siriaca sembrerebbe attestata
dalle citazioni di S. EFREM, nelle opere conservate
in greco (Opera omnia graece et latine
III, pp. 61-63). Ma tali opere risultano spurie.
Prima del III secolo non si trovano tracce di
dubbi sulla genuinità o sulla canonicità
della nostra epistola nelle opere patristiche
giunte fino a noi. Si trovano invece delle allusioni
più o meno chiare nella Didachè
(2, 7; cfr. Giuda 22-23), presso S. POLICARPO
(Ad Philipp.: saluti cfr. Giuda 2; 3,
2; cfr. Giuda 3, 20), nel Martirio di S.
Policarpo, presso TEOFILO ANTIOCHENO ed
altri (cfr. CHAINE, pp. 261-262). Sembra quindi
assai strano il fatto che EUSEBIO elenchi l'epistola
di Giuda fra gli scritti disputati riconosciuti
da molti (Hist. Eccl. III, 25 MG 20,
669). La ragione è indicata da S. GEROLAMO
in questi termini: "Giuda lasciò
una piccola epistola che è tra le sette
cattoliche. Siccome cita la testimonianza del
libro di Enoch, che è apocrifo, da parecchi
viene ripudiata; tuttavia meritò autorità
a motivo della sua antichità e dell'uso
che se ne fa nelle Chiese, e si elenca tra le
Sacre Scritture" (2).
Dopo Eusebio, ma prima di S. Gerolamo, troviamo
molti testimoni che citano l'epistola di Giuda
come S. Scrittura: in Occidente S. FILASTRIO,
LUCIFERO DI CAGLIARI, S. AMBROGIO, S. AGOSTINO
e i Concili africani.
In Oriente in favore abbiamo S. ATANASIO, DIDIMO,
S. CIRILLO GEROSOLIMITANO, S. EPIFANIO, S. GREGORIO
NAZIANZENO (cfr. R. CORNELY, Introductio
Specialis, vol. III, pp. 655 s.).
Non è quindi da intendersi in senso stretto
l'espressione di S. GEROLAMO secondo cui "a
plerisque reicitur". E' sintomatico il
fatto che EUSEBIO, nonostante i suoi dubbi personali,
riconosca che l'epistola di Giuda è ammessa
dalla maggior parte e può addurre le
testimonianze favorevoli di parecchi antichi
(Hist. Eccl. III, 25; cfr. 2, 43; MG
20, 269 e 205). Anche S. GEROLAMO, come risulta
dall'affermazione citata, ammette la nostra
epistola tra le Scritture divine.
Dal IV secolo in poi, le testimonianze favorevoli
si moltiplicano in tutte le Chiese, (se si eccettuano
in parte quelle siriache). Verso la fine del
secolo IV la genuinità e la canonicità
dell'epistola si può dire ammessa per
consenso moralmente unanime.
B) Argomenti interni. I semitismi contenuti
nell'epistola e l'uso di tradizioni giudaiche
depongono in favore dell'origine ebraica dell'autore.
Anche la presentazione assai modesta del mittente
"Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello
di Giacomo" è un contrassegno di
genuinità. Non si vede perché
un ipotetico falsario avrebbe scelto un apostolo
di cui si avevano così scarse notizie,
e soprattutto si sarebbe accontentato d'una
presentazione tanto modesta. E' noto che gli
scrittori che amano fare della pseudoepigrafia
ci tengono a mettere in evidenza l'importanza
del personaggio di cui prendono il nome, onde
coprire la loro produzione letteraria.
(2) "Iudas
parvam, quae de septem catholicis est epistolam,
reliquit; et quia de libro Enoch, qui apocryphus
est, assumit testimonium, a plerisque reicitur,
tamen auctoritatem vetustate iam et usu meruit
et inter Sacras Scripturas computatur"
(De viris ill. 4 ML 23, 645). - Si noti che
"plerique" per S. Gerolamo ha talora
un senso attenuato di "nonnulli".
Noi l'abbiamo reso con "parecchi".
Cfr. Cornely-Merk, Introductionis... Compendium
(Paris 1929) N. 28.
C) Obbiezioni. Contro l'autorità
divina dell'epistola di Giuda rimane da risolvere
un'obbiezione antica, la quale ha indotto, se
non la maggior parte (come sembra dire S. GEROLAMO
con il suo a plerisque) almeno un ceno
numero di scrittori a metterne in dubbio l'ispirazione
e la canonicità.
L'autore di questa epistola attinge i suoi argomenti
non solo dalla Bibbia, ma anche dalle tradizioni
extrabibliche. In un passo almeno sembra citi
come S. Scrittura un apocrifo giudaico: il
libro di Enoch. Per confermare quanto ha
detto riguardo al castigo che attende i falsi
maestri, dopo aver citato esempi biblici (Caino,
Balaam, Core) continua: "Profetò
appunto anche per costoro Enoch il settimo [patriarca]
dopo Adamo, dicendo: ecco che viene il Signore
tra le sue sante miriadi, ecc.... " (vv.
14-15). CLEMENTE ALESSANDRINO, TERTULLIANO,
S. GEROLAMO, S. AGOSTINO e altri considerano
queste parole come desunte dal libro di Enoch
(I, 9). Il confronto dei frammenti greci di
questo scritto apocrifo col testo di Giuda ne
mostra chiaramente la dipendenza letteraria
(3).
Come risolvere questa difficoltà dal
punto di vista della ispirazione biblica? Alcuni
scrittori sono giunti fino ad ammettere l'ispirazione
del libro di Enoch (TERTULLIANO) o almeno di
qualche pane di esso. S. AGOSTINO si esprime
in questi termini: "Che Enoch il settimo
[patriarca] dopo Adamo, abbia scritto qualche
cosa di divino, non possiamo negarlo, perché
lo dice l'apostolo Giuda nell'epistola canonica"
(4).
Ma è proprio necessario giungere fino
a questo punto? I teologi moderni cercano altre
soluzioni che salvano il carattere divino dell'epistola
di Giuda, senza dedurne l'ispirazione, sia pure
parziale, del libro di Enoch. Intanto si può
far notare che Giuda non cita esplicitamente
il libro apocrifo come S. Scrittura, ma una
profezia pronunciata da Enoch. Il verbo "profetare"
come il titolo "profeta", può
intendersi anche in senso largo. S. Paolo nella
lettera a Tito (I, 12-13) scrive: "Uno
dei loro, un loro proprio profeta (si
tratta di EPIMENIDE, vissuto verso il 6oo a.
C.) lasciò scritto:
"I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie,
ghiottone, infingarde". Questa testimonianza
è vera". Nessuno si è mai
sognato di sostenere che EPIMENIDE sia da ritenersi
profeta in senso stretto e scrittore
ispirato, per il fatto che un suo verso
viene citato e dichiarato vero da S. Paolo.
S. GEROLAMO (in Tit. I, 12; ML 26, 571)
osserva giustamente che non s'intende approvato
tutto il libro, quando se ne trova approvato
un piccolo brano. Come S. Paolo poté
utilizzare dei documenti profani, così
S. Giuda poté servirsi di tradizioni
giudaiche extrabibliche, sia pure raccolte in
un libro apocrifo. Basta che non ne approvi
la pretesa di farsi considerare come libro canonico.
Tale pretesa non è affatto condivisa
da Giuda.
Alcuni autori ritengono che questi scelga, tra
la massa confusa delle leggende profane e fantastiche
raccolte nel libro di Enoch, una profezia
sostanzialmente storica del settimo patriarca
antidiluviano. Ma si potrebbe forse rispondere
più semplicemente osservando che Giuda,
dicendo "profetò", non intende
allegare un vaticinio in senso stretto, ma semplicemente
un detto attribuito al patriarca dai circoli
apocalittici in cui sorse il libro di Enoch.
E' noto che gli apocalittici attribuivano la
loro dottrina ai personaggi celebri dell'antichità.
I lettori comunemente sapevano che tali attribuzioni
erano un semplice artificio letterario (pseudoepigrafia
o pseudonimia).
(3) Cfr. P. MARTIN,
Le livre d'Enoch (Paris 1906), p. CXVII,
3. Si veda il commento ai versi 14 e 15.
(4) "Scripsisse quidem divina nonnulla
Enoch, illum septimum ab Adam, negare non possumus,
cum hoc in epistola canonica Iudas apostolus
dicat" (De civ. Dei, 15, 23 ML 41,
470).
Si può dire che anche Giuda usi di questo
artificio letterario scrivendo: "Profetò
Enoch"? Se si ammette, come è verosimile,
che i suoi lettori erano al corrente di quell'uso
degli apocalittici, questa soluzione salva sufficientemente
l'inerranza della nostra epistola. Non è
necessario sostenere che Giuda scelga tra la
massa confusa delle leggende profane e fantastiche
contenute nel libro apocrifo una profezia sostanzialmente
autentica del VII patriarca. Anche se la profezia
non è genuina (perché il verbo
profetò può significare
semplicemente un'attribuzione letteraria), il
contenuto del detto rimane vero e si compirà
nel giudizio finale. Non sembra sostenibile
la soluzione preferita dal CORNELY (Intr.
III, p. 657) e data dal FELTEN (p. 248 s.),
che esclude la dipendenza di Giuda da uno scritto
giudaico. E' troppo forte l'accordo del greco
di Giuda con i frammenti greci del libro
di Enoch per vedere solo una dipendenza
da una fonte orale comune, utilizzata tanto
dall'autore dell'apocrifo, quanto da Giuda.
Non è il caso neppure di pensare a un'interpolazione
cristiana (desunta dall'epistola di Giuda) nel
libro apocrifo di Enoch. Le parole citate
da Giuda si trovano infatti non solo nei frammenti
greci giunti fino a noi, ma anche nelle versioni.
Qualche autore, come il CHAINE (p. 279), crede
che si possa salvare sufficientemente l'ispirazione
con la presenza di citazioni desunto da scritti
apocrifi, distinguendo negli agiografi l'insegnamento
(che non può contenere errore) dalle
idee o concezioni umane, vere o false, che non
sono contrarie a tale insegnamento, ma che possono
coesistere nella mente dell'autore ispirato.
Tali idee dipendenti dalla coltura, dall'ambiente,
sarebbero suscettibili di cambiamenti. L'autore
ispirato si servirebbe di esse come di immagini
per esprimere le verità insegnate. A
questo proposito però si deve tener conto
delle risposte della Pont. Commissione Biblica
del 18 giugno 1915 in cui, tra l'altro, si dice
che non è lecito per il cattolico ammettere
che gli apostoli "sotto l'influsso ispirativo
abbiano espresso dei propri sentimenti umani
nei quali potrebbe infiltrarsi l'errore o l'inganno"
(DENZINGER, n. 2179).
Con gli stessi principi che abbiamo indicato
a proposito della citazione di Enoch
si possono risolvere altre obbiezioni analoghe
contro il carattere divino dell'epistola di
Giuda. Le parole del v. 9 ove si parla della
contesa dell'arcangelo Michele col diavolo a
proposito del corpo di Mosè, sarebbero
una reminiscenza di un libro giudaico intitolato
Ascensione o Assunzione di Mosè. Che
Giuda abbia fatto uso di questo apocrifo giudaico,
si potrebbe dedurre anche dalla somiglianza
verbale del v. 16 dell'epistola con un testo
dell'Assunzione di Mosè (5, 5),
in cui troviamo l'espressione "mirari
personas" in un contesto analogo. Anche
qui basterà far notare che lo scritto
apocrifo non è mai citato espressamente
come libro sacro. Si veda il commento al v.
9.
Alcuni commentatori credono di trovare condivisa
da Giuda (v. 6) un'opinione giudaica pure sviluppata
nel libro di Enoch (cc. 6-11), che interpreta
come un peccato carnale commesso dagli angeli
quanto è detto nella Genesi (c.
6) a proposito dell'unione dei figli di Dio
con le figlie degli uomini. Ma vedremo che il
testo di Giuda si può spiegare diversamente
(5).
Non vi sono quindi ragioni serie per mettere
in dubbio l'ispirazione e la canonicità
dell'epistola di Giuda già riconosciuta
dall'antichissimo Canone Muratoriano
e definita dal Concilio Tridentino.
(5) Su questo argomento
si veda G. E. CLOSEN, Die Sunde der Sohne
Gottes: (Rom 1937).
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Lettori
ed avversari
L'intestazione ci fa sapere soltanto che Giuda,
"servo di Gesù Cristo e fratello
di Giacomo", scrive "ai chiamati,
diletti in Dio Padre e custoditi per Gesù
Cristo".
Nessuna indicazione sul luogo e il carattere
speciale dei lettori. A prima vista potrebbe
sembrare una specie di circolare diretta a tutti
i cristiani. Tuttavia le indicazioni relative
a Giacomo e quelle del contesto riguardanti
ceni determinati avversari, ci possono guidare
nell'identificazione, se non delle Chiese, almeno
delle regioni, per le quali direttamente l'autore
compose questo breve scritto.
Il richiamo alla parentela dell'autore con Giacomo
ci invita a indirizzare le ricerche nell'ambiente
dove Giacomo godeva maggiore autorità,
ossia tra gli ebrei. Una conferma per questa
conclusione, si può trovare nel fatto
che Giuda suppone che i lettori conoscano non
soltanto la S. Scrittura, ma anche diverse tradizioni
giudaiche le quali difficilmente si possono
supporre note ai pagani convertiti. Dal v. 17
risulta che gli apostoli i quali mettevano in
guardia i lettori contro i pericoli dei falsi
dottori, ormai non erano più in vita.
In modo particolare Giacomo doveva già
aver subito il martirio. In queste circostanze
Giuda, vedendo che il gregge già affidato
alle cure del vescovo di Gerusalemme era esposto
a gravi pericoli, valendosi della sua qualità
di fratello di Giacomo, indirizza ai
fedeli minacciati questo suo breve scritto per
premunirli contro le insidie dei lupi rapaci.
Gli avversari confutati nell'epistola sono empi
e disonesti, rinnegano l'unico Padrone e Signore
nostro Gesù Cristo (v. 4), contaminano
il loro corpo, sprezzano la Sovranità,
insultano le Glorie angeliche (v. 8) e per "bramosia
di lucro si gettano nel peccato di Balaam"
(v. 11), sono "lordure nelle agapi"
(v. 12), mormoratori, superbi (v. 16). Gli stessi
avversari sono combattuti. pure nella 2 di S.
Pietro, il cui autore, a quanto sembra, utilizzò
il nostro scritto (si veda l'introduzione alla
2 di Pietro).
In quale ambiente vivevano precisamente gli
avversari presi di mira da Giuda? Nelle Chiese
palestinesi, oppure nella diasporà? (6).
I vizi dei falsi dottori che, a quanto pare,
facevano una specie di sincretismo tra paganesimo
e giudaismo, sembrano piuttosto di indole pagana
che giudaica. Quindi è preferibile pensare
che tali vizi siano penetrati tra i giudeo-cristiani
della diasporà. CHAINE (p. 287 s.) esclude
che la lettera sia indirizzata ad Ebrei convertiti,
perché i vizi dei falsi dottori qui combattuti,
e specialmente la loro impudicizia, fa preferire
l'ipotesi che i lettori siano di origine pagana.
Ma non è detto che gli avversari qui
ricordati siano precisamente degli Ebrei palestinesi;
se noi supponiamo che la lettera di Giuda fu
diretta a giudeo-cristiani viventi nella diasporà,
precisamente come la lettera di Giacomo, la
difficoltà cade. Nella diasporà
i cristiani convertiti dal giudaismo si trovavano
frammisti ad elementi del paganesimo e subivano
l'attrattiva delle correnti sincretiste. La
diasporà giudeo-cristiana dopo la morte
di Giacomo si era estesa in una zona ben più
vasta di quella che entra nell'orbita dell'epistola
di Giacomo. Non sappiamo con precisione in quale
zona infierissero specialmente gli avversari
confutati da Giuda. Pietro lì troverà
più tardi nelle regioni centro-settentrionali
dell'Asia Minore. Forse quando scriveva Giuda
la loro attività era ancora ristretta
alle regioni della Siria e dell'Anatolia meridionale.
A. M. DUBARLE (7) ritiene che Giuda (non apostolo)
abbia inviato da Gerusalemme ai cristiani della
Galazia la sua lettera e anche la lettera
agli Ebrei, lasciata incompiuta da Paolo
e completata da lui; e trova un rapporto di
continuità tra la finale dell'epistola
agli Ebrei (13, 22) e lo scritto del nostro
Giuda (v. 3) ove si parla di salvezza e di esortazione.
La questione è assai discussa (8).
(6) Come pensa K.
PIEPER, Die Kirche Palastinas bis zum Fahre
135 (Koln 1935).
(7) A. DUBARLE, Rédacteur at destinataires
de l'épitre aux Hébreux in Revue
Biblique 48 (1939) pp. 506-529.
(8) Cfr. A. VITTI, in Biblica 22 (1941)
425.
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Tempo di composizione
Dagli indizi interni si possono fissare i termini
estremi. Giuda deve aver scritto dopo il 62
(epoca del martirio di Giacomo) e prima del
70, altrimenti l'autore non avrebbe omesso di
elencare, tra i castighi già inflitti
agli empi anche la recente distruzione di Gerusalemme.
Dal v. 17 risulta che i lettori conobbero direttamente
gli Apostoli. Se si ammette, come sembra ben
probabile, la priorità dello scritto
di Giuda sulla 2 di Pietro, si dovrà
retrocedere di alcuni anni. Tutto considerato
ci sembra preferibile la data fissata dal CORNELY
verso il 65. CHAINE, il quale ritiene che la
2 di Pietro, dipendente da Giuda, sia pseudoepigrafa,
fissa l'epoca di redazione della nostra epistola
tra il 70 e l'80 e ritiene che questa data sia
compatibile con l'autenticità.
Luogo d'origine
Nulla si può dire con sicurezza su questo
argomento. Con una certa probabilità
si può dedurre che l'autore doveva essere
nell'impossibilità di recarsi presto
personalmente tra i destinatari; si trovava,
quindi, in una regione alquanto lontana, forse
nelle regioni della Mesopotamia, che vengono
fissate come campo del suo apostolato.
Lingua e stile
Lo stile è semplice, rude, ma vivace,
energico, animato da immagini pittoresche, simile
a quello degli antichi profeti. Anche sotto
questo aspetto l'epistola di Giuda assomiglia
a quella del fratello Giacomo. In questo breve
scritto troviamo numerosi semitismi, desunti
in parte dai LXX; non mancano i termini tecnici
del nuovo vocabolario cristiano, compaiono ben
14 hapax legomena, e tra questi uno ricorre
qui per la prima volta nella letteratura greca
giunta a noi. Il *MAYOR (p. LVI) fa notare il
gusto per il cosiddetto "Triplet".
Ricorrono infatti a verse riprese elenchi di
termini e di esempi e di espressioni che vanno
a tre a tre (vv. 2. 4. 6-7. 8. 11. 19. 20-21.
22-23).
Argomento e divisione
Dopo l'iscrizione e gli auguri, S. Giuda indica
lo scopo e l'occasione per cui scrive (3-4),
quindi mette in guardia i lettori dai falsi
maestri (5-8), citando esempi dalla storia biblica
e dalla tradizione giudaica (9-16). Ribadisce
i moniti con esortazioni e direttive (17-23)
e conclude l'epistola con una splendida dossologia
(24-25).
Dottrina
Gli insegnamenti sono collegati con la confutazione
delle dottrine sovversive dei falsi maestri
che tentavano di introdurre scismi tra i fedeli.
ORIGENE osserva che "Giuda scrisse una
lettera brevissima, ma tutta penetrata di sapienza
divina" (in Matt., 10, 17 MG 13,
877).
Le principali verità cristiane vi si
trovano supposte o esposte. L'unità
di Dio è posta in risalto nella dossologia
finale (25): "Al solo Dio salvatore nostro";
la Trinità è supposta nei
vv. 20-21: "Pregate nello Spirito Santo,
conservatevi nell'amore di Dio (Padre), aspettate
la misericordia del Signor nostro Gesù
Cristo (nel giudizio finale)".
Dio Padre (1) ci chiama, ci ama (1. 21),
ci salva (25). Lo Spirito (Santo) è
presente nei fedeli (19), li assiste nelle preghiere
(20). Gesù Cristo non solo è
giudice misericordioso dei fedeli (21), ma preesisteva
in quanto Dio, nostro Signore. Nel v. 5 sia
che sì legga "Gesu" (con B.
A. Vg.), sia che si legga "Signore"
si parla di Cristo Signore preesistente
il quale, dopo aver salvato il popolo dalla
terra d'Egitto, in seguito sterminò quelli
che non credettero.
Gesù è chiamato l'unico Padrone
e Signore nostro, (v. 4). La qualifica di
Signore nostro è attribuita a Cristo
anche nei vv. 17. 21. 25 (cfr. v. 5) Gesù
è il Mediatore nostro; per mezzo
di .lui (Redentore e Sacerdote eterno) proviene
a Dio gloria, magnificenza, impero, potenza
da tutta l'eternità per tutti i secoli
(v. 25). I fedeli sono custoditi per Gesù
Cristo (v. 1). Egli è giudice
degli angeli (v. 6) e nostro (v. 21). C'è
un giudizio in cui vi saranno retribuzioni eterne
(4. 6. 15. 21-24).
I cristiani son chiamati e amati da Dio
Padre, custoditi per Gesù Cristo (i cfr.
24), sono santi, posseggono lo Spirito (v. 19),
pregano nello Spirito Santo (v. 20), devono
aderire a una fede (complesso di verità)
trasmessa a loro (v. 3) per mezzo di un magistero
autorevole (5. 17-18).
La fede è il santissimo edificio
sopra del quale i credenti devono costruirsi
come tempio mistico (= Chiesa? 20), partecipano
ad una salvezza comune (v. 3).
La dottrina riguardante gli angeli è
particolarmente sviluppata, in opposizione alle
negazioni dei falsi maestri. Gli angeli son
detti Glorie (v. 8). Vi sono angeli buoni
(che conservano la loro dignità) e cattivi
(che abbandonarono la propria dimora e che subiranno
il giudizio nel gran giorno: 6). Tra gli angeli
vi è un arcangelo, Michele, che
contese col diavolo, senza però
pronunciare giudizio ingiurioso contro di lui
(v. 9).
Siccome la terminologia è alquanto incerta
e sottintende molte verità già
conosciute dai lettori, è talora difficile
precisare il pensiero teologico di S. Giuda.
Tuttavia il parallelismo con la 2 di Pietro
e l'uso del linguaggio paolino che, in questo
periodo, era ormai patrimonio comune dei fedeli,
ci servirà a chiarire senza forzare il
senso di certi termini ambigui.
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Uso liturgico dell'Epistola
di San Giuda
I primi 13 vv. sono usati come lezioni per la
festa dei Santi apostoli Simone e Giuda (28
ottobre) e nella vigilia di Pentecoste. I versi
19-21 si leggono come epistola nella Messa di
S. Silverio, Sommo Pontefice e Confessore (9).
(9) Nel breviario ambrosiano s'inizia la lettura
dell'epistola di Giuda nel Sabato entro l'ottava
di Pentecoste.
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